leINIZIATIVE

La città del futuro è una città cooperativa

La città del futuro è una città cooperativa

L'intervento di Alessandro Maggioni al Festival dell'Economica di Trento

Categorie: Dalla FederazioneLe Iniziative

Tags:

Si è parlato di urbanità, di futuro e di cooperazione, al Festival dell’Economia di Trento nell'incontro dal titolo “Città del futuro e mobilità sostenibile”. Se l'emergenza Covid ha contribuito a modificare la percezione degli spazi cittadini (privati e pubblici), la città ha conservato e conserva il proprio primato rispetto a borghi e paesi, come fulcro di vita e di lavoro, oggi e non solo. Non è possibile pensare al futuro del nostro Paese prescindendo da una riflessione sul futuro della città. Da qui è partito il dibattito organizzato domenica 5 giugno presso l’Aula Kessler della Facoltà di Sociologia di Trento.

La voce della Cooperazione di Abitazione sul tema è stato portata da Alessandro Maggioni, presidente di Confcooperative Habitat e presidente del Consorzio CCL di Milano.  Ecco il suo intervento: 

"La città è il luogo fisico e simbolico dove l’umano sviluppa il suo destino attraverso l’abitare.
Il verbo abitare, come bene ha scritto Giancarlo Consonni nella nostra “Carta dell’Habitat” che ha ispirato anche queste mie riflessioni, deriva dal latino habēre, un termine che indica un possesso ripetuto e impernia l’abitare su un vincolo di continuità intergenerazionale. Che obbliga a quella che Hans Jonas definirebbe una “responsabilità diacronica”. Non si può parlare dunque di città del futuro senza vederne il legame inscindibile con la città del presente e con quella del passato.
Essendo poco il tempo a disposizione, semplifico il ragionamento evidenziando che nel processo di affermazione e sviluppo della città, quantomeno della città europea a noi prossima, vi sono state due fratture: la prima è quella provocata dall’adozione del dall’adozione del “Codice Napoleonico” nel 1804 e la seconda è quella più recente determinata dall’affermarsi della globalizzazione finanziaria nella città post industriale.

La prima frattura di fatto è connessa all’introduzione in diritto e in fatto dell’idea di proprietà privata come diritto assoluto e pressoché incondizionato. È interessante leggere gli articoli 544, 545 e 546 del codice.
Il 544 dice: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera la più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti”; e ancora “Nessuno può essere costretto a cedere una sua proprietà, se non per causa di utilità pubblica e mediante giusta e preventiva indennizzazione”; per finire con l’articolo 546 che afferma che “La proprietà di una cosa sì mobile che immobile attribuisce diritto su tutto ciò ch’essa produce o che vi si unisce per accessione”. Si crea dunque una chiara e fondamentale cesura tra la dimensione connaturatamente pubblica della città e la dimensione privata del dimorare, generando l’ossimoro terminologico di “città pubblica”. E si afferma in maniera chiara la forza e legittimità della “rendita fondiaria urbana” come forza soggettiva sottesa alle trasformazioni urbane.
La seconda frattura che intravedo in questo rapido excursus è invece quella legata all’affermarsi dell’economia finanziaria globale nell’era post industriale, era in cui si è consumata una altrettanto nodale cesura tra città e campagna. Nella società globalizzata dell’economia finanziaria, la città che è al centro del reticolo di scambio dei flussi sottostanti a tale modello - flussi sia materiali per il tramite delle reti di mobilità, sia immateriali per il tramite degli scambi monetari - diventa un’entità che concentra e moltiplica il capitale, portando all’eccesso quel “produce diritto su tutto ciò ch’essa produce” riferito alla proprietà.Alla rendita fondiaria urbana, ancorata comunque alla terra, ecco affiancarsi la rendita finanziaria immobiliare.

Con queste due fratture si afferma così la rendita come regolatore occulto delle vite umane senza che ve ne sia una piena e chiara consapevolezza.

Gli esiti di tale processo impattano però, in tal caso palesemente, sullo sviluppo territoriale nell’era del capitalismo finanziario. Si affermano, laddove non entri in gioco un ruolo regolatore del soggetto pubblico, città diseguali in territori diseguali, con la creazione di infrastrutture di mobilità e trasporto spesso ad alta dissipazione di energia e di tempo sottratto alla vita, a-ecologiche e tendenti a una situazione di collasso permanente.

La sfida ecologica non può che essere connessa a una rigenerazione (e generazione) autentica di urbanità e questa prospettiva è praticabile solo se è costantemente unita alla improcrastinabile sfida redistribuiva: prima che “smart”, prima che “Green”, la città deve essere “fair”. Una città giusta è connaturatamente ecologica e intelligente.

Come rendere tangibile questo processo redistributivo? Attraverso l’intelligenza collettiva degli abitanti, che tornano a essere protagonisti dei loro destini dando risposte ai loro bisogni.
Lo scenario attuale, ancora segnato dalle cicatrici della pandemia da Covid e reso ansioso dalla novecentesca guerra di aggressione russa all’Ucraina, obbliga chi è dotato di vigile consapevolezza e senso di responsabilità a interrogarsi sul necessario cambio di passo che questi fatti impongono alla globalizzazione come oggi l’abbiamo conosciuta.

Se guardiamo alle forze in campo che paiono essere dominanti vediamo, sempre procedendo con un settarismo semplificante, da un lato i cantori di un liberismo manicheo e, dall’altro, i nostalgici dello statalismo. Entrambe le polarizzazioni ideologico ideali mostrano però tutto il logoramento che si portano appresso. Se il liberismo ha portato al dominio del “realismo capitalista” tratteggiato da Mark Fisher, incapace di generare senso e redistribuzione, favorendo l’affermarsi di disuguaglianze, regressione culturale generalizzata, polarizzazione tra vincenti e perdenti e populismo, lo statalismo - laddove diviene dottrina dominante - porta ad autoritarismo, democratura e tirannia. 

Ecco dunque la necessità, nel chiaro riferimento ai valori liberali di uguaglianza, libertà e fraternità affermati nelle rivoluzione francese e alberganti comunque nei valori occidentali, di affermare una via che temperi tali eccessi. Tale strada è il mutualismo cooperativo, anche e soprattutto nella costruzione della città.

Ecco dunque che l’organizzazione degli abitanti in cooperativa consente non solo di costruire case, in alcuni casi quartieri, a costi significativamente più bassi di quelli imposti dal mercato grazie alla genetica natura no-profit e sociale di ogni vera cooperativa di qualsiasi settore, ma anche di attivare una serie di economie di scala collaterali.

In una cooperativa di abitanti i soci, che sono i cittadini, imparano a stare in processi democratici istituzionalizzati (e non assembleresti); imparano a capire come funziona un’azienda che arriva a fare operazioni - come nel caso della cooperativa Habitat Navigli di Milano - di taglie economiche importanti (in questo caso di oltre cinquanta milioni di euro); innescano, grazie a spazi appositamente pensati per una vita collettiva - funzionali a migliorare il benessere abitativo - processi aperti tra la casa, il privato, e la città, il quartiere; combattono la gentrificazione indotta da una rendita fondiaria e immobiliare lasciata senza briglie; ri-abitano luoghi che sarebbero abbandonati rigenerando economie territoriali sostenibili e di prossimità.

Insomma, la città del futuro nell’Occidente capitalista, non può che essere una città che fa dell’urbanità e della cooperazione i suoi elementi portanti."


Tag:

I commenti sono visibili solo agli iscritti.

Il tuo nome
Il tuo indirizzo e-mail
Oggetto
Inserisci il tuo messaggio ...
x