leNOTIZIE

"Una casa giusta per una città normale". Anche a Milano.

"Una casa giusta per una città normale". Anche a Milano.

L'intervento di Alessandro Maggioni al convegno "Casa a Lavoro" di Fondazione San Carlo.

Categorie: Dalle Cooperative

Tags:

In occasione del 25° anniversario di Fondazione San Carlo, il convegno “Casa e lavoro: da situazione ad occasione” martedì 3 dicembre ha offerto lo spunto per una riflessione pubblica sulle vecchie e le nuove povertà della metropoli milanese insieme all’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini. Fra gli interventi anche quello di Alessandro Maggioni, presidente del Consorzio Cooperative Lavoratori di Milano e presidente Confcooperative Habitat: 

"Ringrazio gli amici di Fondazione San Carlo, in particolare Daniele Conti, Giorgio Gualzetti e il sempre appassionato Sandro Antoniazzi, che mi hanno chiesto di essere presente a questo importante incontro che celebra un importante compleanno: 25 anni di Fondazione San Carlo sono un traguardo che segna l’età adulta di una intuizione centrale sulla scena dell’abitare “giusto” a Milano. Auguri di cuore, dunque. 

Detto ciò mi soffermo rapidamente sul titolo, dove spiccano due parole: casa e lavoro.  Io sono qui oggi come presidente pro tempore di un Consorzio cooperativo, il Consorzio Cooperative Lavoratori di Milano promosso dalle ACLI e dalla CISL, che fa case da quasi 50 anni (abbiamo realizzato circa 15.000 alloggi), ma nella sua denominazione ha due parole centrali: cooperazione e lavoro. Mi sono sempre chiesto perché non ci fosse la parola casa o abitare. L’ho capito dopo un po’ di tempo; perché l’istanza fondativa del CCL era quella di organizzare – tramite le ACLI e la CISL – i lavoratori per far sì che, attraverso il modello cooperativo del più rigoroso mutualismo in campo abitativo, riuscissero a farsi la “miglior casa al minor costo”. Per questo, oltre al comune radicamento nei principi della Chiesa e in particolare della Chiesa Ambrosiana, i nostri legami sono robusti.  

Prima di focalizzarmi su quale può essere il nostro ruolo mi permetto una piccola divagazione. È difficile di questi tempi fermarsi, fare pausa, riflettere su quanto accade attorno a noi. Si ha la sensazione di essere su un enorme hula-hoop scosso da anche inquiete. Si ha come la sensazione, nella Milano di questi tempi, ebbra di grande eccitazione e soddisfatta del proprio pingue benessere, che ci si sia dimenticati completamente non solo della crisi, brutale, del 2012 ma anche di come si era qualche anno fa. Orbene, non che ci si debba condannare alla depressione come stato permanente, ma il richiamo alla misura che trova la sua cifra nella sobrietà mi pare sia una necessità. Non si è fatto molto, in questi anni: le “regole”, comunicativamente molto ammalianti, si sono fermate allo stadio dell’enunciazione, le sperequazioni sembrano aumentare e i posti di lavoro reali evaporano. I ricchi, quindi, continuano a restare quieti nel loro dorato empireo, i ceti medi – dove resistono – boccheggiano, i poveri soccombono. 

Allo sguardo ingenuo di chi, come il sottoscritto, poco conosce della inesatta scienza economica, ma si cimenta ogni giorno nella pratica e nella rappresentanza dell’impresa cooperativa, pare che ancora una volta si sia eluso – nelle analisi, nei provvedimenti economici e nel dibattito politico – uno dei nodi sostanziali che stanno dietro e sopra questa crisi: il nodo del “senso” (nella duplice accezione di significato e direzione di marcia) dello sviluppo. Estremizzando mi pare si possa dire che in questa incerta fase dello sviluppo umano, in cui il pensiero calcolatore e quantitativo spadroneggia, si ha la percezione di una pericolosa e ormai cronicizzata insensatezza dello sviluppo. Mi piace citare qui alcune righe che richiamano tutti noi al recupero di una dimensione “di senso” rintracciabili nelle parole di un pensatore “radicale”, Cornelius Castoriadis, che nel suo “La rivoluzione democratica”, scriveva: “Le radici della situazione che viviamo si trovano nel fallimento di ciò che, dopo la scristianizzazione della società, la sua secolarizzazione e il rifiuto a orientarsi secondo norme trascendenti, aveva sostituto queste ultime: l’immaginario del progresso che, sia nella sua forma liberal-capitalista, sia nella sua forma marxista, sopravvive ormai solo come guscio vuoto”. Ecco dunque la necessità di costruirsi uno spazio economico e sociale che possa riprodurre non solo la replicazione di ricchezza fine a se stessa, ma reale benessere collettivo. 

Richiamando l’enciclica “Caritas in Veritate”, significa fare spazio a imprese che “informano il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico” (Caritas in Veritate), traguardando orizzonti di lunga durata, con sguardi di prospettiva generale, attente a bilanciare sempre con grande equilibrio il peso tra interesse privato e bene comune.  Questo è quello a cui volge la cooperativa autentica: il soddisfacimento di un bisogno per i propri soci, marcando così con chiarezza la propria identità di impresa diversa, tesa verso fini ben differenti da quelli solipsistici che spesso risiedono nelle imprese orientate al “profitto per il profitto”, interiorizzando per natura elettiva i principi di un’economia “solidale”. Un’impresa che accompagna le persone nel processo di ottenimento dei propri bisogni, avendo ben chiaro che non esistono solo diritti, ma anche doveri. Un’impresa che educa, quindi, alle regole della convivenza e della dialettica, con il sempre costante sottofondo della responsabilità reciproca e, per dirla con Hans Jonas, diacronica.  

Fatta questa prolusione, sommaria ma a mio avviso necessaria, arrivo alla domanda fattami da Giorgio. E la mia risposta secca è che no, a Milano, nonostante il luccichio, non va tutto bene. Di recente ho preso parte a un convegno che ha rendicontato la situazione dei prezzi delle case in quel di Milano; in quella sede è emerso il fermento che si vive negli ultimi mesi nell’immobiliare milanese. È stata messa in luce un crescita generalizzata dei prezzi con l’indicazione del valore medio delle case compravendute pari a 5.565 €/mq. Tanti soldi, non c’è che dire. Se in linea generale e teorica questo dato non può che essere accolto dagli operatori con una certa soddisfazione, una lettura più profonda e articolata – che si potrebbe definire “critica” se tale termine in Italia non fosse visto con una sfumatura sempre negativa – mette in luce una realtà più complessa. Che, sul lungo periodo, può generare scompensi. 

Perché dico ciò? Perché la città non è una tavola di Monopoli. Dove si mettono casette in vie blasonate e si soffocano con la spietata rendita gli avversari. La città è un organismo vivo, pulsante innanzitutto di umanità; la città è insieme urbs e civitas. L’una genera l’altra in una reciprocità dinamica, che deve essere costantemente tenuta in equilibrio. Spostare troppo i fattori della trasformazione urbana in una direzione “mercatista”, come sfondo neutro per attrarre investimenti che rendano profitti finanziari, alla lunga genera città, territori e società diseguali e rabbiose. La domanda che ci si pone è: quanta gente può permettersi di vivere a Milano – in proprietà o in affitto – se il valore medio degli immobili è quello sopra riportato e se, dati ISTAT 2018 alla mano, il reddito medio annuo è pari a 29.627 euro lordi (circa 2.470 euro lordi al mese)? Non molti, naturalmente.  

Che fare, dunque? In primis perseguire con decisione politiche urbanistiche che rendano prassi l’obbligo di realizzazione di quote di edilizia calmierata – in proprietà e in affitto – assieme o a fianco alle case per i benestanti. In tal senso Milano ha avviato già da tempo un’azione in questa direzione che, con il nuovo Piano di Governo del Territorio prossimo al varo, sarà ancor più rafforzata. In ogni operazione superiore ai 10.000 mq scatterà l’obbligo di realizzare almeno il 40% di Edilizia Residenziale Sociale in proprietà e in affitto. Si tratta di una misura coraggiosa che prova a mettere qualche briglia a una rendita fondiaria sempre bizzosa. Perché oggi fare case per i “poveri” significa fare case per le persone “normali”. 

Oltre a ciò si dovrebbe affrontare con decisione il tema delle relazioni metropolitane tra Milano e l’hinterland. La forza centripeta milanese, infatti, se da un lato genera una effervescenza riscontrabile a ogni livello, dall’altro rischia di creare un solco sempre più profondo tra il capoluogo e la corona urbana di prima e seconda fascia. Se è vero che le modifiche del sistema tariffario del trasporto pubblico provano a ridisegnare un differente assetto metropolitano incardinato sul trasporto pubblico (ancora troppo afasico), è altrettanto vero che il processo di espulsione di abitanti da Milano verso la provincia, consolidatosi negli ultimi 20/30 anni, ha generato un mostruoso flusso di ritorno di city users. Chiunque si rechi a Milano ogni mattina è testimone di tale incolonnamento perenne che toglie aria alla nostra regione ed erode tempo di vita – prezioso tempo di vita – a centinaia di migliaia di donne e uomini costretti a un faticoso pendolarismo. Per questo una politica concertata su alcuni assi di sviluppo metropolitano potrebbe essere una misura che supporta un riequilibrio socio-economico della “grande Milano”. Per questo diventa fondamentale anche il lavoro che stiamo facendo assieme e in grande sintonia con Fondazione San Carlo, Farsi Prossimo, Abitare Sociale Metropolitano per stare dentro un processo importante su un progetto importante per fare un’offerta economica capace di rispondere a quanto detto prima: una rete di imprese orientate non al profitto, bensì al senso e alla risposta di chi è normale e di chi ha bisogno, costruendo vero “bene comune”. 

Il tema di una casa giusta per una città normale è dunque un tema ineludibile. Perché una città troppo tesa a narrarsi come bersaglio luminoso di risorse economiche smisurate che arrivano da ogni parte del mondo, perde di vista la sua traiettoria storica. Che, per Milano, è sempre stata incisa nel suo nome: “terra di mezzo”, dunque sobria e dotata di giusta misura. E la testimonianza di tale giusta misura è insita nella struttura interclassista di Milano, in cui i quartieri popolari sono stati da sempre pensati non isolati, bensì gomito a gomito – e in alcuni casi nervo a nervo – con i quartieri “borghesi”. Questo saggio equilibrio è stato l’animo profondo di questa città oggi al centro della ribalta. E questo animo va sempre difeso e rilanciato, per far sì che fenomeni come quelli che si stanno intravedendo a Berlino o a Parigi, in cui l’impoverimento endemico di ampie fasce di popolazione a causa dei costi abitativi genera rabbia e legittima “lotta di classe”, non raggiungano livelli di guardia. Insomma, Milano non guardi troppo alle città diseguali. Guardi a se stessa, alla sua storia popolare, cattolica ambrosiana e socialdemocratica. Non vedrà solo un glorioso passato alle sue spalle, ma anche un brillante – e giusto – futuro davanti a sé".

Tag:

I commenti sono visibili solo agli iscritti.

Il tuo nome
Il tuo indirizzo e-mail
Oggetto
Inserisci il tuo messaggio ...
x